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anime in paradiso, il Frate celebrando i miracoli straordinarii incredibili delle sue reliquie, e il Farmacista delle sue medicine. Poi il Frate racconta com'egli una volta andò all'inferno per prendervi una ragazza, e quanto fece con Lucifero per ottenerla. « Lucifero, egli dice, era una mia vecchia conoscenza, perchè spesso nel dramma del Corpus Christi abbiamo fatto ambedue da Luci fero a Ceventry » (1). Descrive poeticamente lo sfarzo delle vesti di Lucifero e di tutta la sua corte infernale. Finalmente 11 Merciaiuolo dà a ciascuno de' consigli oscuri e ridicoli uno più dell'altro. Il dramma, nato in chiesa, si ribellava ad essa in nome della libertà e della morale.

(La fine al pross. fasc.).

Prof. CRISTOFORO PASQUALIGO.

(1)

For as good hope would have it chance
This devil and I were of old acquaintance,
For oft, in the play of Corpus Christi

We both play'd the devil at Coventry.

Di questo Interludo, o Intermezzo, è una minuta analisi nelle Lectures of the literature of the age of Elizabeth by W. Hazlitt. London, 1869.

LETTERA INEDITA DI CARLO MARENCO

A

GIORGIO BRIANO (1)

Simatmo mio Signore ed Amico,

Ceva, il 9 luglio 1842.

Se tardi rispondo al gentilissimo di Lei foglio del 29 scorso, non è, s'accerti, colpa di trascuraggine od altro. Primieramente l'esemplare del dramma, di ch'Ella mi fece cortese dono, mi venne consegnato dall'ufficio postale due giorni dopo ricevuta la lettera, nè sonne il perchè. Poi, siccome il Re con tutta la corte dovevano passare, come fecero, per Ceva la notte dopo il 4 corrente, avviati da Genova a Raconigi, nella mia noiosa qualità di giudice, dovetti preparare vias Domino; e mi piovvero addosso tanti ordini che per quattro o cinque giorni non ebbi pace nè tregua. Ora il Re è passato, il Cristoforo Colombo l'ho letto, e

(1) Nel vivo rimpianto che facciamo dell'egregio pubblicista a cui la presente lettera fu diretta, ci pare ch'essa valga con parola più autorevole che non sarebbe la nostra a definire il merito di Giorgio Briano come poeta drammatico. La lettera del Marenco giova inoltre a darci il carattere del tempo in cui fu scritta, quantunque quel cenno che si fa del Messaggere Torinese non si possa pigliare per testo infallibile. La Direzione.

posso finalmente ragionarle del gran piacere che provai a que. sta lettura. Sì, io ne rimasi contento e ammirato, e se non temessi di parerle superbo, Le direi che, s'io avessi composto un dramma uguale, me ne terrei. Cominciando dall'ultima cosa, lo stile, esso mi piacque assai perchè poetico nella sua prosa, pieno di alti pensieri, e di belle immagini, robusto, concitato, e con temperanza fiorito. Quanto alla tessitura, io non trovo nulla a ridire al 1., 2., 4., e 5. atto. Parmi soltanto che nel terzo i mutamenti di scena sien troppi, che le prime due scene non siano affatto necessarie, e che, quantunque belle, e tendenti pur esse ad uno scopo, potessero, o tralasciarsi, accennando altrove l'ignoranza del popolo e il valor militare di Colombo, o fondersi in una sola questo p. e., nella scena 12, fra Perez ed Isabella. Quantunque io ami la maniera larga e indipendente nell'orditura drammatica, l'esperienza mi ha dimostrato che quei materiali cangiamenti di scena, quelle tende che vanno su e giù, alla rappresentazione, raffreddano alquanto: tanto più che portano seco una non materiale sospensione d'azione, la dividono in altrettante azioni parziali, cui difficilmente alla fine dell'atto lo spettatore sa riassumere, e ricomporle in una azione unica e generale: come chi contemplando un quadro di storia fiamminga, difficilmente saprebbe cogliere di un solo sguardo que'tanti scompartimenti accessorii, e, coordinatili col principale, cui si riferiscono, formarne nella sua imaginazione un sol quadro. Si è per questo che nell'ultime mie tragedie (e ciò le dirò senza pretendere punto di costituirmi in maestro) fui costretto a riservare le mutazioni di luogo agl'intervalli fra l'un atto e l'altro: come feci persin nell'Arrigo di Svevia, che abbraccia un lungo periodo di anni, e quasi intera, dirò meglio, una buona parte della vita di Federico II di Svevia. Nell'Arnaldo da Brescia, poi, e in un poema drammatico, cui sto ora lavorando, non trovando modo di comporre ciascun atto di un solo getto, li divisi tutti in due parti, sicchè sotto nome di cinque, sono realmente dieci atti. In questo modo, parmi che l'azione e il dialogo ne riescano più concitati, la sceneggiatura più connessa, e l'una scena più motivata dell'altra, il tutto più rapido ed efficace. I caratteri mi parvero generalmente ben dipinti. Quello di Colombo è scolpito, come non potevasi desiderare di più. Grandeggia, è vero, colossalmente su

gli altri tutti: ma è sempre li sugli occhi dello spettatore ad ammirarli e rapirli: e poco importa che gli altri sian nani appetto di lui, purché il gigante si vegga sempre. E poi il personaggio di Perez desta anch'esso la sua parte d'interesse; belli son pure quelli della Regina, di Beatrice, e di Alonzo Pinzone. Ferdinando mi par tale, quale lo ci ha tramandato la storia: se il suo ministro fa brutta figura, tanto peggio per lui. Era uffizio degno del banditore della rettitudine il gettare nella memoria dei contristatori dell'Uomo Grande un manto d'infamia meritato, ed esemplare. Soltanto bramerei alquanto più sviluppata la scena dei dotti di Salamanca, e che quegli asini in toga apparissero altrettanto pregiudicati quanto vili e bassamente maliziosi; che con maggiore apparato di argomenti tratti dalla scienza, ossia ignoranza d'allora, si studiassero di confutare quelli del gran novatore; che si vedesse più espressa la lotta del vecchio col nuovo, delle tenebre contro la luce, del pregiudizio contro la verità; che a prova di loro torte opinioni adducessero perfin, come facevano (ma qui Facelli se ne impaccerebbe) i testi contorti della scrittura etc., che si vedesse insomma quanto il progresso della scienza vien talvolta ritardato da una quasi forza d'inerzia di quella. Nella scena 4. dell'atto secondo, quel cenno della stampa è magnifico, mi ha scosso al paro di parecchie intere bellissime scene. L'atto quinto è un capo d'opera; poco importa che la situazione sia già stata delibata da un coreografo e da un drammaturgo. Mi fanno compassione coloro che a guisa di giudici criminali van sempre attorno colla lanterna in cerca dei furti letterarii. Di que. sta sorta di latrocinii son complici tutti coloro che trattano lo stesso soggetto storico. Il furto è fatto alla storia; or venga dessa e se ne quereli. E qui cade in acconcio di dirle com'io, appena seppi come il suo Colombo venne maltrattato dal Messaggiere, ne formai subito un orrevol concetto, e dissi a tale, che entrommi di questo: il Dramma non può fallir d'esser buono, perchè coloro che hanno per istituto di piaggiare i mediocri ed addentare i valenti, l'hanno amaramente censurato. Fa Ella dunque assai bene a non isgomentarsi punto per sifatti latrati : quantunque siano pur troppo molesti, ed io, malgrado il silenzio costante che mi proposi di opporre alle ingiurie de'critici, so quanto il persistere in tal risoluzione mi sia costato e mi costi, e quan

to di male alla mia tempra soverchiamente sensitiva facessero e facciano i morsi di tali cani. S'accerti, gliel dico ingenuamente in confidenza, che io del mio silenzio ho pur troppo un piccol merito. Eccole il parer mio sincerissimo. Scusi la maniera languida e incomposta colla quale lo esposi, e lo serbi esclusivamente per sè, e nemmeno per sè, giacchè ne troverà dei migliori. Io sono un pessimo critico, ma sento, e leggo senza preoccupazione di teoriche astruse e d'invidia.

Prosegua alacremente nel suo cammino, e ci regali le altre due parti della sua trilogia, ch'io Le auguro siano come la prima commendevoli, e fortunate. Io lavoro ad una tragedia, o me. glio poema drammatico in due parti, l'una delle quali spero di poter terminare in tempo da farla rappresentare nel prossimo carnevale. Ma sarà difficile che ciò mi si consenta in Torino, dove la censura spiega contro di me rigori insoliti. Quella di Milano non è più mite. Costi i revisori della stampa hanno sempre riparati i torti fattimi dalla revision teatrale; ma colà, dove pretendono esser più larghi, han posto sotto interdetto l'ultimo volume delle mie tragedie, in odio del Berengario e del Manfredi. Eppure si stampò in Milano il Niccolò dei Lapi, dove si dicono cose da chiodi contro gli stranieri d'ogni razza. Io non invidio punto al valoroso d'Azeglio la sua troppo meritata fortuna; ma non posso a meno di risentire sdegno di una parzialità, che ritrae dalla barbara legge dell'albinaggio. Mi faccia riverente alla sua gentil signora, gradisca e faccia gradire a Lei i complimenti di mia moglie, mi ami e mi creda pieno di stima ed amicizia.

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Il suo aff. CARLO MARENCO.

P. S. Delle tante gentili ed amorevoli cose ch'Ella mi scrisse, Le sono grato. Le mie tragedie son poca cosa; e più m'avanzo nell'arte, più orizzonte io vo scoprendo, e più mi convinco che è di gran lunga maggiore lo spazio che rimane a percorrere e che altri percorrerà in vece mia. Ma, se lddio mi consente tanto di vita, di salute e di pace, che io possa almeno terminar di colo

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