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pre chiuse in faccia dalla nuova legge elettorale che ne escludea gli insegnanti delle scuole secondarie. Avrei potuto rinunziare alla cattedra; chè, da una parte, il Brofferio per lo appunto mi offriva la direzione dello Stendardo Italiano, e dall'altra il Correnti stu. diavasi farmi un posto nella redazione della neonata Perseveranza. Ma duro pane mi parve sempre cotesto dei giornalisti; e, di più, mestiere non tagliato per me che, amando francamente e imparzialmente nelle opere e negli scritti il vero, ignoro del tutto le arti di accomodarlo alle esigenze dei partiti.

Del resto, per riparlare di Brofferio, non veggo perchè mai non abbia potuto essere ministro: ingegno e facondia non gli negava alcuno; nè scienza bastevole a cavarsela con onore, se pure non ne possedeva molto più del bisogno. Era noto in Italia e fuori: caro al Principe; amato dal popolo; non inviso ai colleghi, pure di parte avversa alla sua: e la guerra dei Don Basilio, nel nostro tempo e nel nostro paese, non che rendergli ardua la via, avrebbe dovuto appianargliela. È vero; dapprincipio godeva la nomea di liberale esagerato: e nel Parlamento Subalpino lanciava i suoi fulmini dall'alto della montagna dove sedeva solo e in disparte come il Saladino: ma, in fondo in fondo, un buon figliuolo che non avrebbe per l'oro di tutta la California fatto male a una mosca: voce di Mirabeau e cuore di Camillo Desmoulins, due citazioni che io faccio in memoria della sua ammirazione per la Rivoluzione francese: ma non sono rigorosamente giuste, perchè Brofferio la rivoluzione aveala solo nelle parole e negli scritti; e nella forma più che nella sostanza; intonazione magniloquente che, nelle occasioni solenni e quando smetteva il giornalista, egli pigliava per vezzo di singolarità e per un certo istintivo amore del grandioso e dello straordinario che bene si attagliava alla sua persona e rispondeva pienamente alla natura del suo ingegno. Nel fatto riusci temperatissimo sempre, lontano almeno le mille miglia da quella repubblica che i suoi nemici lo accusavano di promuovere e ch'egli nominava qualche fiata per classica reminiscenza. A rigore, non credo sarebbe mai uscito dalle istituzioni presenti, contentandosi di vedere avverati nella Monarchia Costituzionale d'Italia il sogno del Lafayette svanito nella Monarchia Costituzionale di Francia. Perciò il Cavour lo preferiva un giorno al Revel per deputato di Torino. Dopo il 1860 Brofferio, sceso dal

suo Aventino, si accostò al Rattazzi che l' ebbe caro davvero: e allora diventò legno da fabbricarne all'uopo un ministro. Ma tre cose specialmente gli nocquero sempre. La memoria degli antichi urti avuti con questi e con quelli uomini levati in importanza e autorità dalla politica d'oggidì. Un certo spirito di municipalismo piemontese del quale, malgrado il suo sentire altamente italiano, non seppe del tutto spogliarsi mai; e se ciò non gli giovava prima di quell'anno, figuriamoci in seguito, quando de' piemontesi volevano alcuni e vorrebbero disperdere pur la semenza. Finalmente il Brofferio, per quanto si impancasse nella politica, era pur sempre un letterato, colpa enorme che la gente seria e grave in Italia perdona difficilissimamente. Que' medesimi conservatori nostri che applaudono al ritorno del Romanziere Disraeli nei Consigli della Corona d'Inghilterra, lo caccerebbero a ramajolate di fagiuoli riconci se mai si argomentasse far capolino da noi. Del resto, perchè non sia mai stato ministro, la fama del Brofferio non durerà meno lungamente.

Ma se mi si chiedesse a quale de' suoi lavori specialmente la debba, proprio non saprei. Innanzi tratto, a tutti quanti, mulatis mutandis, mi par vada a capello il giudizio che Giuseppe Ricciardi fa de' Miei tempi: « libro che, sebbene dettato con poca eleganza, << anzi scorretto quanto alla lingua, leggesi assai volontieri, tra < per la serie infinita di fatti, non troppo noti la maggior parte, che << vi son raccontati, e pel brio con cui vengono porti al lettore. >> Taccio delle tragedie non eccettuata quella generosissima di Vi tige re dei Goti, cose mediocri alle quali Brofferio stesso dava poca importanza o nessuna. Le commedie, bellissime e giustamente lodate per conoscenza della scena, per novità d'intreccio e per quella che Vis Comica fu chiamata dai latini, non hanno però l'arte drammatica fatta avanzare d'un passo: e alcune di esse, come è debito d'un tal genere di componimenti, così non ritraggono al vivo i costumi e i tempi i quali intendono dipingere che facilmente non si possano riferire ad altri costumi e ad altri tempi. Io sentii recitare una volta il Salvator Rosa in abito di secolo XIX: e non faceva una grinza. Le Scene Elleniche, delle quali niuno potrebbe negare la nobiltà della ispirazione, l'opportunità ed efficacia, degne che il celebre Amedeo Peyron le accompagnasse di un dottissimo suo Studio sulla Grecia antica, vanno tuttavia ri

prese di stile enfatico, ampolloso e declamatorio con cui però lo scrittore cittadino, a stimolo degli italiani, coloriva le eroiche gesta degli elleni insorti nel 1821. Delle Tradizioni Italiane, riuscite inferiori al loro scopo perchè la Tradizione affogo nel Ro. manzo massime in quelle parti che dettava il Brofferio, già toccai superiormente. Così del Messaggiere Torinese nel quale per dodici e più anni i piemontesi tutti e una gran parte degli italiani, schiavi dello assolutismo, andavano avidamente a ricercare, sotto un frizzo e sotto un' arguzia letteraria, una allusione, un pensiero politico che altrimenti non sarebbesi potuto manifestare. Della Galleria Contemporanea non giova parlare perchè lavoro di sola compilazione o meglio Raccolta di scritti d'autori italiani liberali che non aveano facile modo, a que' tempi, di essere divolgati. La Storia del Piemonte dal 1814 in poi, narrata con la consueta scioltezza e vivacità, e tale da farsi leggere tutta d'un fiato, scende qualche volta fuor del costume della storia a troppo minuti particolari e riesce qualche altra soverchiamente personale. Lamartiniana la dissero que' suoi lodatori che pur non voleano venir meno al vero e alludevano alla Storia della Rivoluzione del 1818 dove specialmente campeggia L' Io del francese scrittore. La Storia del Parlamento Subalpino, commessa al Brofferio dal re Vittorio Emanuele, non potè essere terminata da lui; e male dai tre volumi pubblicati si argomenterebbe del resto. La prosegue il Macchi. Le cose migliori del Brofferio sono ancora le sue Canzoni Piemontesi scritte col brio, con lo spirito e l'amor patrio di Beranger e con affetto maggiore: barbare pel loro idioma le chiamò nello Assedio di Roma il Guerrazzi: ma il livornese esagerava a bello studio ed a scopo di polemica col proposito di mettere, confrontando toscani e subalpini, il Brofferio al dissotto del Giusti. Il torinese però, appunto per coteste canzoni alle quali affidava il suo nome, al natio dialetto ci teneva: e benchè fosse bellissimo parlatore anche in lingua, sempre quando non vi era tirato pei capegli, nel discorso famigliare lo preferiva. Sopratutto il Brofferio fu poeta: ed anche versi italiani scrisse non indegni dei piemontesi. Cominciò, si può dire, la sua vita con l'Ode sulla caduta di Missolungi e la chiuse con l'inno di guerra del 1866: quella, pregievolissima pure come lavoro d'arte; questo, specialmente, pel

fuoco che vi seppe spirare il più che sessantenne suo autore: splendido il tramonto come l'aurora!

Dunque, ripeto, se mi si facesse il quesito a quale di cotesti suoi scritti, ch'egli non ebbe tempo, modo e pazienza di condurre a quella perfezione di forma che sola vale ad eternare un'opera d'arte, il Brofferio dovrà essere di ricordato dai posteri, io risponderei a tutti ed a nessuno. Questo soltanto vuol essere messo in sodo che il suo lungo lavoro di giornalista, di poeta, di oratore, di storico giovò in Italia a sgominare, letterariamente, l'accademia, la pedanteria, la nullità rigonfia di cortigianeria: politicamente, la reazione e il liberalismo ipocrita in veste di Gesuiti e senza. Non il primo, ma neanco l'ultimo fra i più generosi e audaci promo. tori del nostro risorgimento. Le opere sue morranno: l'opera sua vivrà.

FERDINANDO BOSIO.

IL TEATRO INGLESE PRIMA DI SHAKESPEARE

Il periodo più glorioso della storia inglese è quello del regno di Elisabetta. Se si eccettui l'Italia, che sul principio del secolo XVI ebbe una schiera di uomini prodigiosi, massime nelle arti e nelle lettere; nessun'altra nazione ebbe tanti uomini insigni in tutti i rami della umana attività, come allora l'Inghilterra. Statisti, guerrieri, teologi, eruditi, poeti, filosofi: i lor nomi suonano fra i massimi benefattori, non pur del loro paese, ma dell'umanità intera. E ciascuno di essi è circondato da un drappello di altri che rimasero << oscurati dalla soverchia luce; » ma che basterebbero ad onorare qualunque popolo. Il più famoso di tuttl è il poeta dalle mille anime: Guglielmo Shakespeare. In questo secolo gli studii fatti sopra di lui, si può dire che l'abbian fatto cittadino di tutte le nazioni incivilite. Inghilterra, Germania, Francia ed America vantano, ciascuna, una ricca letteratura shakespeariana, che attesta qual fascino eserciti sulle menti questo poeta, pure in un tempo in cui si direbbero soffocate dai materiali interessi le più alte aspirazioni ideali. L'Italia, dove fino dal 1756 si tradusse, a Siena, il Giulio Cesare (1), ebbe anch'essa da un secolo in poi molti uomini d'ingegno che coltivarono lo studio di Shakespeare; e più n'avrebbe avuti se gli italiani non fossero stati preoccupati dalle loro sciagure domestiche e poi dal pensiero del loro risorgimento. Dalla nostra bibliografia shakespeariana non è senza interesse il vedere quali dei drammi di quel poeta abbiano mag

(1) Giulio Cesare, tragedia di Shakespeare recata in italiano da Domenico Valentini. Siena, 1756.

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