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giureprudenza pedantesca e formulistica va cedendo il luogo alla più razionale anche appo i più vecchi magistrati pedemontani.

9. Dotta, faconda e sotto ogni rispetto compiuta difesa è l'annunziato lavoro dell'illustre avv. V. Toullier da Catania in tema di liquidazione di danni a favore di un medico diffamato e contro il dichiarato diffamatore. Pendendo tuttora indecisa la lite, e non conoscendo noi le ragioni dell'altra parte, non intendiamo preoccupare il giudicio colla nostra opinione, per quanto poco valore possa questa avere. Solo ci sia permesso di dire, guardando unicamente all' incremento delle discipline giuridiche, non all'interesse delle persone, che retta applicazione ci sembra fatta delle teoriche del Gioia, che per primo trattò l'ardua materia della valutazione dei danni svariati per ogni guisa d'ingiurie sotto tutti i riguardi, fisici, morali, economici, giuridici e persino estetici. Questa dell'avv. De Mauro non è tanto una difesa quanto una monografia la quale ricca di dottrina e di giurisprudenza, com'è, sarà sempre consultata con gran profitto da chi è chiamato a trattare o a risolvere una simile tesi. Nè dissimulerò la soddisfazione provata nel vedere citata e comentata una decisione della Corte d'Appello di Casale, avendo io avuto l'onore di appartenere a questa e di prender parte a quella.

10. L'indefesso Guardasigilli Vigliani, a cui è a cuore pubblicare un nuovo codice penale, che come il civile, faccia onore a questa Ita lia abantico leggifera, volle che per mezzo dei Prefetti si indagasse l'opinione pubblica sull'abolizione della pena dell'estremo supplicio. Avendo il comm. Mayer, prefetto di Venezia, avuto l'accorgimento di interpellare in proposito il benemerito Direttore della Rivista Veneta, avv. A. S. De-Kiriaki, ne ricevette una risposta a stampa, che onora tanto chi la scrisse quanto chi seppe provocarla. La opinione del pubblicista veneto, avversa alla conservazione del carnefice, si rivela appieno da una sentenza, tolta ad epigrafe, la quale appartiene a quell'insigne penalista, e suo concittadino Ellero, che già scrisse un'opera lodata e fondò un giornale per l'abolizione della pena capitale, e che tutti gli argomenti, vecchi e nuovi fece convergere a questo principalissimo: « La tranquillità dello Stato non è incompatibile colla esistenza del delinquente, ma colla sua libertà. » Il Kiriaki ha il merito di aver posta la quistione e riassunta l'omai secolare discussione nel modo più chiaro e netto per venire alla conclusione, che quando si volesse (ciò che neppur noi crediamo possibile) sottoporre il quesito alla coscienza popolare, questa risponderebbe all'unisono con ciò che hanno risposto sempre da Beccaaria in poi, la scienza ed il sentimento. Io però, sia detto con buona venia anche del Mittermaier, non invocherei la testimonianza dei giurati la quale può agevolmente ritorcersi in contrario, atteso che essi in troppi casi, specie nelle cause di brigantaggio e grassazione con omicidio, non ammettendo circostanze attenuanti, si pronunciano per la pena di morte. Allora solo questo genere di prova calzerebbe quando

il legislatore autorizzasse i giurati ad ammettere le attenuanti anche pel motivo estrinseco, che ad essi ripugna la pena di morte.

Crediamo al pubblicista di Venezia che l'opinione degli uomini savi e prudenti non ritiene che nelle condizioni speciali di quella provincia sia necessario mantenere nella legislazione penale l'estremo supplicio. E tanto plù siamo portati a crederlo, sapendo come le popolazioni venete per mitezza di costumi (testimone anche il Tommasèo) non la cedono nemmeno alla Toscana, con cui hanno tanti riscontri, come appare anche dal confronto de' rispettivi canti popolari, custodi delle patrie memorie e costumanze.

Se tutti coloro che sono stati interrogati dai prefetti del Regno vorranno e sapranno porre la studiosa cura che ha posta il De-Kiriaki a rispondere in un modo degno di un ottimo cittadino di una libera e nobile patria, noi portiam viva fiducia che rappresentanti di essa troveranno nel complesso delle risposte il più sicuro avviamento a risolvere con soddisfazione generale una delle più ardue questioni legislative del nostro secolo.

11. Un saluto a Bologna, alla città insegnatrice d'ogni alta cosa, alla degna ospite di tutte arti e scienze, che meglio si addicono agli ordini della civiltà moderna, nelle sue splendide tradizioni inspirati e preparati. « Fui oltremodo soddisfatto della città di Bologna. Questa e Brescia sono le più importanti, energiche e meritevoli del Regno. » Cosi Napoleone il Grande in una lettera ad Eugenio del 25 giugno 1805. E questo giudicio è confermato dalla storia, atteso che, a prescindere da altri pregi non meno memorabili, furono le lotte popolari dell'evo mezzano e moderno (delle quali un riscontro si vide nelle recenti giornate della riscossa) che ai bravi Romagnoli e Bresciani diedero molta rilevanza per maschie e civili virtù. Non so però quanto il summenzionato principe de' moderni prepotenti potesse approvare quel tratto più spiccato del carattere di quel popolo che passato in proverbio suona: tenacità di Romagnolo ! Un popolo, che si ribellò sempre al dritto della forza, perchè dall'educazione domestica aveva imparato il ragionevole ossequio che vuol prestarsi unicamente alla forza del dritto. Nè può scordare che dall'antico Ateneo bolognese, un tempo irraggiava il sapere, segnatamente applicato alla giustizia, per tutto il mondo, ed ivi ne' secoli passati, malgrado le difficili comunicazioni accorrevano discepoli dalle più remote parti per ottenere il dottorato in legge e medicina. Salve, o città illustrata da Irnerio e dalla sua scuola, onde uscirono per tanti secoli sommi giureconsulti e romanisti, de' quali non può spegnersi la razza sinchè quella si vede continuata da un Ceneri e da altri suoi pari. Qui io sento tutta la mia pochezza, ma mi conforta il pensiero, che qui potrò fare qual cosa di meglio coll'energia perseverante de' miei proponimenti, coll'aiuto de' tuoi valorosi figli, colla inspirazione sincera delle tue gloriose memorie.

Bologna, febbraio 1874.

Avv. C. Lozzi.

Gazzettino bibliografico Italiano.

Machiavelli e le sue Opere, di Carlo Gioda. Firenze, G. Barbèra, edit. Vi sono uomini di un ingegno così straordinario, e di un'anima così capace, così nitida e forte, che a guisa di uno specchio riflettono ciò che loro sta d'intorno, rappresentano tutta intiera un'età, ed hanno la virtù di dare un' impulso continuo allo svolgimento dell'umano progresso. Di tali uomini l'Italia è ricchissima, perchè, senza contare i grandi che produsse l'antica Roma, dal decimoquarto secolo al decimonono noi ne abbiamo tre che andranno giganteggiando, a mano a mano che i secoli si accumuleranno sui loro venerati sepolcri. Questi tre uomini sono, Dante Alighieri, Nicolò Machiavelli e Giuseppe Mazzini, i quali si rassomigliano per la qualità dell' ingegno, per la fortezza d'animo, per la sublimità e generosità dei sentimenti, per le grandi traversie onde furono travagliati, per la disparità dei giudizii che i contemporanei e la posterità pronunciarono su di essi. Tutti tre furon uomini di lettere e di azione, lasciarono scritti che i posteri studiano con crescente amore, tutti tre patirono le più inique violenze, sopportarono l'esilio, la povertà, il carcere, furono intesi da pochi e vituperati da molti. Tutti tre finalmente ebbero un culto religioso verso la loro patria che voleano veder grande e rispettata, e ad essa consecrarono il loro sommo ingegno, sacrificarono la quiete dell'anima ed ogni bene di fortuna. Questi tre uomini appunto perchè ebbero tanta comunanza di affetti e d'idee, e tanta rassomiglianza di sventure, s'interpretano mirabilmente a vicenda. Dell'Alighieri e del Mazzini non dirò che qualche parola, perchè i brevi confini di un' articolo non mi consentono di dimostrare ciò che sento. Ma parlando del Machiavelli del Gioda, non potrò dispensarmi dal toccare di quei due.

Sul Principe del segretario fiorentino si stamparono tanti volumi da empiere molti scaffali, e, benchè di un significato diverso, senza che alcuno a parer mio abbia dato nel segno. Eppure se si fosse studiata bene addentro la natura dei tempi, dell'animo e del genio poetico dell'Alighieri, non sarebbe stato difficile lo spiegare il senso vero del Principe, che, secondo me, giova moltissimo ad interpretare il Veltro di Dante. Stranieri ed italiani si affaticarono intorno al Machiavelli, e gli uni lo levarono tanto a cielo che il Müller giunse a sclamare, che negli scritti del Machiavelli non trovavasi cosa che non fosse oro puro; altri lo ammirarono non senza mescolare il biasimo all'ammirazione; ed altri lo sprofondarono in un abisso di vituperii e d'iniquità. Da questi ultimi specialmente prese il Gioda a difenderlo come già avean fatto, senza parlare di tantissimi altri, il Macaulay e gli illustri professori Pasquale Stanislao Mancini e Andrea Zambelli. Ma neppure il Gioda, come tutti gli altri più indulgenti e più vogliosi di rivendicare la fama di un uomo così grande e così benemerito dell'Italia, seppe scoprire tutta la ragion vera per cui il Machiavelli scrisse il suo Principe nel modo che tutti cono

scono.

Il Machiavelli aveva una fede vivissima nella liberazione e nella unità d'Italia, purchè sorgesse un principe o un popolo tanto valoroso, accorto e savio da sapersi valere dei mezzi a ciò necessarii. Determinarne precisamente il quando non era dato a lui come non è dato ad alcun uomo. Pensò prima al duca Valentino; morto questi, pose le sue speranze in Lorenzo de' Medici, le quali per cagione della morte del duca fallitegli pure, tornò a far all' amore con la repubblica. A lui sommamente italiano poco importava che l'Italia fosso redenta dal suo avvilimento più da un prin

cipe che da un popolo. Come Dante aveva sperato in Uguccione della Fagiuola, poi in Enrico dl Lussemburgo, e deluso nelle sue speranze ma non smarrita la fede nell'unità d'Italia predisse che sarebbe comparso un veltro che avrebbe discacciato la lupa, così il Machiavelli, dopo di avere operato indarno in Cesare Borgia, poi in Lorenzo de' Medici, scrisse i Discorsi per ammaestrare il popolo a compiere quello che non era più da sperarsi da un principe a' suoi tempi. Il Principe, i Discorsi e l'Arte della guerra sono tre trattati che non ne formano che un solo, intesi tutti e tre alla liberazione d'Italia dalla servitù straniera ed alla unità. Il medesimo si dica di Giuseppe Mazzini il quale compie Dante e il Machiavelli. Anch'esso sperò in Carlo Alberto, e gli scrisse quella famosa lettera che tutti conoscono per eccitarlo a mettersi alla testa del risorgimento italiano. Poi scrisse Pio Nono incoraggiandolo nella via delle riforme ed a liberare l'Italia dagli stranieri; si rivolse di nuovo a Çario Alberto nel 1848 quand' era in Lombardia, e visto che nè l'uno nè l' altro compievano le sue speranze, si appigliò al popolo nelle cui forze ripose intiera la sua fiducia.

La cosa essenziale pel segretario fiorentino era che l'Italia fosse liberata dagli stranieri e composta ad unità, e nel suo pensiero chiunque fosse sorto con la generosa idea di vendicare e far grande l' Italia, avrebbe trovato ne' suoi libri sopraccennati una guida sicura per condurre a fine la grandissima impresa. Il Principe non fu dunque una scuola di tirannide, non un laccio teso a Lorenzo per farlo cadere in odio al popolo fiorentino, non un trattato d'immoralità. Un principe che volesse salvare l'Italia a quel tempo dovea condursi come insegnava il Machiavelli perchè il secolo era tristissimo, e se non fosse stato volpe e leone opportunamente, non sarebbe riuscito.

Molti e sodi argomenti usò il Gioda per provare che il pensiero del Machiavelli fu quello di salvare l'Italia mercè del vigoroso dominio di un solo;

e che il segretario fiorentino ben lungi dall' essere un' iniquo e un' infame come vollero farlo i suoi nemici, fu invece un uomo pieno del più sviscerato amore per la patria, un uomo d'animo intemerato, un uomo infine che con la sua condotta in tutta la vita dimostrò meglio che con parole in quanto onore tenesse la virtù. Il libro del Gioda contiene molta dottrina, e dimostra che l'autore ha un fine criterio e un giudizio sano. Il Gioda prese ad esaminare minutamente tutte le opere del Machiavelli, e mi pare che le abbia giudicate con imparzialità e rettitudine; la lingua è buona, e lo stile, benchè qua e colà un po' studiato e un po' duro, nell'insieme ha una impronta propria e piacevole. Solamente avrei desiderato che non istritolasse tanto le legazioni, che fosse un po' più parco d'incisi, e che non dimenticasse mai essere la chiarezza la prima proprietà del di

scorso.

Quest'opera venne scritta per concorrere a un magnifico premio decretato dal Municipio di Firenze al più bel libro che sarebbe comparso su Machiavelli e le sue opere. La Commissione incaricata dell' esame dei varii manoscritti, non trovò in quello del Gioda nè in altri tutto ciò che desiderava per concedere il premio di Lire 5000; ma trovò nell'opera del Gioda tanti meriti da non potersi dispensare dal suggerire al Municipio un' attestazione d' onore del Gioda; il che la Giunta Municipale compieva nel dicembre ultimo scorso. L'editore Barbera ha fatto un' opera buona accordando l'onore de' suoi tipi al prof. Gioda che avea bisogno di farsi maggiormente conoscere, e di essere incoraggiato.

FRANCESCO COSTERO.

Carlo Matteucci e l'Italia del suo tempo: Narrazione di Nicomede Bianchi, corredata di documenti inediti; Roma, Torino, Firenze, Fratelli Bocca (un vol. in-8 di 600 pag.; prezzo L. 6) - La fama del Matteucci come fisico insigne è mondiale; ma del Matteucci, uomo, di stato nulla si sapeva fuori

d'Italia, assai poco nell'Italia stessa, poichè non pare ai più cosa possibile che si conseguano da un uomo solo più dignità. Un valente critico francese, il sig. Edmondo Scherer, parlando di Daniele Stern, faceva, or sono pochi anni, questa osservazione giustissima: « L'attention publique n'aime pas à se sentir sollicitée en plusieurs sens à la fois. Il lui faut quelque chose de très un, d'un caractère très-saisissable. Elle est peu touchée du spectacle d'une intelligence, telle précisément que celle de notre auteur, avide de tout embrasser, allant de l'art à la science, s'essayant tour à tour dans le roman la philosophie l'histoire, la critique; tout cela donne le change, déconcerte, et il se trouve que là encore les hautes qualités intellectuelles ont nui au succès qu'elles semblaient devoir assurer. » Il Matteucci non ha scritto, a conoscenza nostra, nè romanzi, nè trattati di filosofia, ma si distolse più che una volta da'suoi gravi studii scientifici, per occuparsi di politica e di amministrazione, non solamente in qualità di dilettante, ma di politico ed amministratore egregiamente ammae'strato. Nessuna meraviglia adunque che il Bianchi, il migliore de' nostri storici contemporanei, abbia considerato e narrato l'opera di Carlo Mat teucci in relazione con l'Italia del suo tempo. Ma perchè se ne renda più evidente la ragione cediamo la parola al Bianchi stesso: « Carlo Matteucci volle lasciarmi una testimonianza di amicizia affettuosa col dono delle sue carte. Nell'ordinare, m' accorsi bentosto, che se erano importanti dal lato scientifico, esse contenevano cose non meno interessanti sotto l'aspetto politico. Il che torna facilmente credibile quando si sappia che il Matteucci ebbe intrinsichezza cogli uomini egregi, i quali prepararono e diressero il moto liberale della Romagna nell'anl'anno 1831; che prese parte efficace all' apostolato politico, manifestatosi operoso in principio del pontificato di Pio IX; che fu Commissario governativo al campo toscano nella guerra lombarda del 1848; che fu inviato diplomatico del Granduca Leopoldo II

presso il Governo provvisorio di Milano e presso l'Assemblea Costituente Germanica di Francoforte; che andò a Gaeta onde sollecitare il Granduca a ritornare in Firenze Principe costituzionale; che si fece seguace zelante dell'ardita e liberale politica del Conte di Cavour dopo il Congresso parigino; che richiamato ai pubblici affari dalla guerra del 1859, ebbe dal Governo di Firenze uffizii diplomatici presso il Re di Sardegna e presso l'Imperatore dei Francesi; e che poi si intromise nella questione Romana carteggiando con Cardinali, con Ministri, con illustri uomini di Stato nostrani e stranieri, e con altri che erano nelle intime confidenze di Napoleone III. S'aggiunga che egli fu senatore e zelante ministro della pubblica istruzione del Regno d'Italia, e che coll'opera della penna si mostrò instancabile nel rendere di pubblica ragione i concetti della sua mente intorno al nuovo assetto nazionale. Questi cenni spiegano a sufficienza il titolo del mio libro, dacchè in esso la vita del Matteucci s'intreccia cogli eventi, pei quali la storia contemporanea d'Italia vince d'importanza la storia di più secoli addietro negli annali del nostro paese. Ciò fu lo stimolo maggiore a farmene narratore accurato, dopo il proposito gratissimo di lumeggiarla, quanto meglio da me si poteva, onde, per atto di amicizia, soddisfare al nobile desiderio della donna egregia (la signora Robinia Young, vedova del Matteucci), che, a lui vincolata d'amore, divise con lui le contentezze e i dolori, ed ora vive in vedovanza sconsolata, custodendo come cosa sacra la memoria dello sposo immaturamente perduto. » Il Bianchi ebbe nelle sue mani, ogni sorta di documenti preziosi; e, poichè nessuno meglio di lui possiede l'arte di convertire il documento in una eloquente pagina di storia, tutto il libro gli riuscì ricco di tali pagine eloquenti; cosa mirabile, quando si pensi quanto volume in così breve tempo egli abbia messo insieme. La qual brevità di tempo sarà ad un tempo cagione di ammirare la destrezza dello storico, e di

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